Questo libro di “Novelle”, a cura di Lucio Lugnani, raggruppa solo alcune fra le storie più belle ideate da Luigi Pirandello e raccolte successivamente nei volumi di “Novelle per un anno”.

Leggendo questo libro si ritrovano tutte le tematiche principali della produzione pirandelliana, a partire dall’antitesi tra vita e morte e tra la realtà e l’illusione che gli uomini si costruiscono; tutti gli intrecci sono pervasi da quel suo solito umorismo spiazzante, che lascia un sorriso anche di fronte alle vicende meno allegre.

È perciò un mondo fobico e chiuso, nel quale i personaggi sono tutti reclusi che cercano una via di scampo e di fuga, ora vanamente tentando di sfuggire a un corno della contraddizione col correre ciecamente incontro all’altro polo…

Tutto, in Pirandello, è diverso da quello che in realtà è: le persone indossano costantemente una maschera, ingannevoli, si adeguano alla vita, fingono in continuazione, recitano un copione che il destino ha dato loro. Le persone non mostrano mai il loro vero volto, nascosto, e i pochi protagonisti che si muovono in tal senso vengono subito additati, giudicati matti dal mondo artefatto.

L’autore delle Novelle per un anno spera che i lettori vorranno usargli venia, se dalla concezione ch’egli ebbe del mondo e della vita troppa amarezza e scarsa gioia avranno e vedranno in questa tanti piccoli specchi che la riflettono intera.

La lettura delle Novelle di Pirandello è un salto nella disillusione, un addentrarsi in luoghi non comuni, pervasi da una tensione e da un senso di soffocante apprensione, un viaggio gustoso da assaporare pagina dopo pagina, cercando una verità che, per lo scrittore, è morte stessa, liberazione da una vita che talvolta è dono, talvolta è trappola da cui fuggire.

Tanto è sempre stata così per la vita: a lampi e a cantonate. Non sono riuscito a vederci mai niente. Ogni tanto, un lampo; ma per veder che cosa? Una cantonata.

 

Quello dei personaggi pirandelliani è un continuo barcamenarsi tra la sanità mentale, la maschera, l’illusione, e la pazzia, il volto, la disillusione, un dimenarsi tra la vita e la morte, tra l’essere e l’apparire, tra la prese di coscienza del vuoto soffocante della vita e il cedere alle spinte vitali, catastrofiche, a cui essa ci riconduce.

E ho nausea, orrore, odio di questo che non sono io, che non sono stato mai io; di questa forma morta, in cui sono prigioniero, e da cui non mi posso liberare. Forma gravata di doveri, che non sento miei, oppressa da brighe di cui non m’importa nulla, fatta segno d’una considerazione di cui non so che farmi; forma che è questi doveri, queste brighe, questa considerazione, fuori di me, sopra di me: cose vuote, cose morte che mi pesano addosso, mi soffocano, mi schiacciano e non mi fanno più respirare.

Solo pochi grandi “filosofi della vita” riescono a trovarne una combinazione accettabile, tirando boccate d’aria, così come ci riesce il protagonista de “La carriola” in quei brevi attimi in cui le regole divengono parole vuote da scavalcare, e la follia unica via di fuga dalla vita opprimente.

La noia cupa, amara; il peso enorme di quella sua insopportabile esistenza. Di contro a tutto il nero che aveva nell’anima, ecco il verde dei prati, l’azzurro del cielo e quella soave freschezza dell’aria, alito vivo della primavera. E rimase, incantato, a mirare. Sì, poteva, poteva esser bella la vita.

E, alla fine, il solo consiglio che Pirandello può dare ai suoi lettori è quello di sorridere.

Cose della vita, sciocchezze… In un modo o nell’altro, passano e non lasciano traccia. Ridere, intanto, di tutte le cose nate male, che restano a penare nelle lor forme sgraziate o sconce, finché col tempo non crollano in cenere.

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