L’Antologia di Spoon River  è una raccolta di poesie uscita dalla penna del poeta Edgar Lee Masters pubblicata tra il 1914 e il 1915.

Le diverse poesie narrano quelle che sono state le vite delle persone di un piccolo paesino degli Stati Uniti, e per farlo Masters utilizza una forma particolare, quella dell’ epitaffio.

Protagonisti sono gli abitanti comuni, cittadini facoltosi o poveri contadini, il sindaco, il medico, lo sceriffo, l’ubriacone e il suicida…

Condivisa l’esistenza per molti anni, continuano anche dopo la morte a spartirsi lo stesso spazio, il cimitero in cui furono sepolti insieme ai loro ricordi.

Ricordi che mestamente affiorano tra le righe di queste poesie.

C’è chi rimpiange una vita trascorsa nell’ingordigia, chi esprime la disperazione per la morte di un caro, chi ripercorre le tappe salienti del suo cammino, chi si addolora e chi gioisce di essere morto.

 

“E poi i figli – oh, che cosa sarebbero stati?

E quale il tuo dolore? Bimbo! Bimbo!

La Morte è meglio della Vita!” (Elizabeth Childers)

 

Un grido straziante del dolore di una madre che perde il suo bambino. Egli non potrà mai vivere la sua vita, ma poco male: la vita è solo pena, sofferenza, lacrime e amarezza.

 

“[…]e così svanite insieme,

piano piano, lievemente, delicatamente,

l’uno nelle braccia dell’altro per così dire,

uscendo dalla stanza consueta-

quello è un potere di unisono fra le anime

che somiglia all’amore!” (William e Emily)

 

Due corpi, due anime, un’unica essenza racchiusa per sempre in un sentimento inscindibile, l’amore vero, l’amore che brucia, l’amore per sempre.

Sentimenti diversi, forti, che rendono questi morti “vivi”.

Un’atmosfera surreale, a tratti cupa, onirica.

Un mondo che continua, nonostante i limiti del tempo, nonostante la fine dell’esistenza stessa. Essi continuano ad anelare all’essenza della vita, a quel sapore che li fa sentire partecipi dell’universo, con la voglia di gridare “io esisto!”.

Probabilmente molto più di quando erano vivi.

 

“Tu morirai, non c’è dubbio, ma morirai vivendo

In profondità azzurre, rapito nell’amplesso

Baciando l’ape regina, la Vita!” (Edmund Pollard)

 

Vivi, ci vuol dire Edmund, tu che puoi! Lui, in fondo, sa bene cosa vuol dire non poterlo più fare, quale dolore si prova, sepolto sotto la terra umida, senza più vita.

Vivere come se ogni giorno fosse l’ultimo.

Perché ci rendiamo conto del valore di qualcosa solo quando ormai ci sfugge via, scivolandoci tra le dita.

Sappiamo che Masters si ispirò a personaggi realmente esistiti nei paesini di Lewistown e Petersburg; molte persone, alle quali le poesie erano ispirate, si sentirono lese perché egli rese pubblici anche i loro segreti più intimi.

Il poeta definì quest’opera “qualcosa di meno della poesia e di più della prosa“.

Io parlerei semplicemente di capolavoro. Una riflessione sulla vita così profondamente cristallina, a volte angosciante, non può che essere tale, un oggetto d’arte che rifugge da ogni confronto.

 

 

Ciò che colpisce di questi racconti è la sincerità, il modo diretto e immediato con cui svelano le proprie anime, senza remore né vergogna, proprio perché ormai, non essendo più, non hanno nulla da perdere.

 

La lingua magari è un membro indisciplinato –

Ma il silenzio avvelena l’anima.

Mi biasimi chi vuole – io son contento” (Dorcas Gustine)

 

Una sorta di riscatto per alcuni, per altri un atto liberatorio, una consolazione, una vendetta, una vittoria.

Una vittoria su chi ci ha fatto del male, una vittoria sulla vita stessa.

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