LA TEMPESTA DI NEVE, di Puskin Leggere - Facile Marzo 4, 2017 Silvae et alia Sul finir dell’anno 1811, nell’epoca per noi memorabile, viveva nel suo possedimento di Nieneradovo il buon Gavrila Gavrilovič . Egli era celebrato in tutto il circondario per l’ospitalità e la cordialità; i vicini ogni momento andavan da lui a mangiare, bere e giocar di cinque copechi a boston con sua moglie, Praskovia Petrovna, e taluni per vedere la loro figliola, Maria Gavrilovna, snella, pallida fanciulla diciassettenne. Ella passava per un ricco partito e molti la riserbavano per se o per i figli. Maria Gavrilovna era stata educata sui romanzi francesi e, per conseguenza, era innamorata. L’oggetto da lei prescelto era un povero alfiere dell’esercito, che si trovava in licenza nel proprio villaggio. Va da sé che il giovane ardeva di egual passione e che i genitori della sua amata, avendo notato la loro scambievole propensione, avevan proibito alla figlia anche di pensare a lui, e lui lo accoglievano peggio di un assessore in ritiro. I nostri innamorati erano in corrispondenza, e ogni giorno si vedevano da solo a sola in un boschetto di pini o presso una vecchia cappella. Là si giuravan l’un l’altra eterno amore, si dolevan della sorte e facevano progetti diversi. Scrivendosi e discorrendo in tal modo, essi (il che è naturalissimo) pervennero al seguente ragionamento: se non possiamo respirare l’un senza l’altra, e il volere dei crudeli genitori ostacola la nostra felicità, non potremmo noi far senza di esso? S’intende che questa idea felice venne prima in capo al giovanotto, e che piacque moltissimo alla romanzesca interpretazione di Maria Gavrilovna. Venne l’inverno e interruppe i loro convegni; ma tanto più viva si fece la corrispondenza. Vladimir Nikolaevič in ogni lettera la supplicava di abbandonarsi a lui, di sposarsi segretamente, nascondersi per un po’ di tempo, gettarsi poi ai piedi dei genitori, i quali, certo, sarebbero stati al fine commossi dall’eroica costanza e dall’infelicità degli amanti, e avrebbero detto loro senza fallo: “Figlioli, venite tra le nostre braccia”. Maria Gavrilovna esitò lungamente; una quantità di progetti di fuga furono respinti. Infine ella acconsentì: il giorno fissato lei non doveva cenare, doveva ritirarsi in camera sua col pretesto del mal di capo. La sua cameriera era della congiura; tutt’e due dovevano uscire in giardino dalla scaletta posteriore, dietro il giardino trovare una slitta pronta, salirvi e andare a cinque verste da Niedarodovo, nella borgata di Zadrino, direttamente in chiesa, ove Vladimir già doveva essere ad aspettarle. Alla vigilia del giorno decisivo Maria Gavrilovna non dormì tutta la notte; preparò la sua roba, annodò involti di biancheria e vestiario, scrisse una lunga lettera a una signorina sentimentale, amica sua, un’altra ai suoi genitori. Ella diceva loro addio con le più commoventi espressioni, scusava il suo passo con l’invincibile forza della passione e finiva col dire che avrebbe considerato come il più felice momento della sua vita quello in cui le fosse stato permesso di gettarsi ai piedi dei suoi carissimo genitori. Suggellate le due lettere con un sigillo di Tula, sul quale erano raffigurati due cuori fiammeggianti con una conveniente iscrizione, si buttò sul letto proprio davanti all’alba e si assopì; ma anche lì orribili sogni la svegliavano ad ogni istante. Ora le sembrava che, nell’attimo stesso in cui saliva in slitta per andare a sposarsi, il padre la fermasse e con tormentosa celerità la trascinasse sulla neve e la gettasse in un buio sotterraneo senza fondo… e lei volava a testa in giù con indicibile struggicuore; ora vedeva Vladimir, steso sull’erba, pallido, insanguinato. Egli, morendo, la pregava con voce acuta di affrettarsi a sposarlo… altre informi, assurde visioni ondeggiavano davanti a lei una dopo l’altra. Finalmente ella si alzò, più pallida del consueto e con un dolor di capo non simulato. Padre e madre notarono la sua inquietudine; la loro tenera premura e le incessanti domande: “Che hai, Maša? Non sei malata, Maša?”, le straziavano il cuore. Ella si sforzava di calmarli, di parere allegra, e non poteva. Venne la sera. Il pensiero che ormai per l’ultima volta passava la giornata in mezzo alla sua famiglia, le stringeva il cuore. Ella era appena viva; in segreto diceva addio a tutte le persone, a tutti gli oggetti che la circondavano. Servirono la cena; il cuore si mise a batterle violentemente. Con voce tremante dichiarò che non aveva voglia di cenare, e prese ad accomiatarsi dal padre e dalla madre. Essi la baciarono e, al solito, la benedissero; per poco ella non diede in pianto. Giunta in camera sua, si gettò su una poltrona e si sciolse in lacrime. La ragazza la esortò a calmarsi e rinfrancarsi. Tutto era pronto. Entro mezz’ora Maša doveva lasciare per sempre la casa paterna, la sua stanza, la quieta vita di fanciulla… Fuori v’era la tempesta di neve; il vento ululava, le imposte tremavano e sbattevano; tutto le pareva minaccia e triste presagio. In breve nella casa tutto si chetò e si assopì. Maša si avvolse con lo scialle, indossò una veste pesante, prese tra le mani una cassettina, e uscì sul terrazzino posteriore. La domestica portò dietro a lei due involti. Scesero in giardino. La tempesta non si calmava; il vento soffiava incontro, come sforzandosi di arrestare la giovane colpevole. A stento raggiunsero l’estremità del giardino. Sulla strada la slitta le aspettava. I cavalli, intirizziti, non stavano fermi; il cocchiere di Vladimir andava e veniva davanti alle stanghe, trattenendo gli impetuosi. Egli aiutò la signorina e la ragazza ad accomodarsi e a collocare gli involti e la cassetta, raccolse le redini e i cavalli partiron di volo. Affidata la signorina alle cure del destino e alla maestria del cocchiere Terioska, volgiamoci al nostro giovane innamorato. Vladimir era stato in moto tutto il giorno. La mattina era andato dal prete di Zadrino; a fatica si era accordato con lui; poi era andato a cercare i testimoni fra i proprietari vicini. Il primo a cui si presentò, la quarantenne cornetta in ritiro, Dravin, acconsentì con piacere. Quell’avventura, assicurava, gli rammentava i vecchi tempi e le gherminelle degli ussari. Persuase Vladimir a pranzar da lui e gli accertò che per gli altri due testimoni non ci sarebbe stata difficoltà. Infatti, subito dopo pranzo comparvero l’agrimensore Smidt, baffi e speroni, e il figlio del capitano di polizia, un ragazzo sui sedici anni, da poco entrato negli ulani. Essi non solo accettarono la proposta di Vladimir, ma gli giurarono perfino di essere pronti a dare la vita per lui. Vladimir li abbracciò con effusione e andò a casa a prepararsi. Annottava già da un pezzo. Egli mandò il suo fidato Terioska a Nienarodovo con la sua troika e con istruzioni particolareggiate, esatte; e per se ordinò di attaccare la slitta piccola a un cavallo, e da solo, senza cocchiere, si avviò a Zadrino ove di lì a un paio d’ore doveva giungere anche Maria Gavrilovna. La strada gli era nota e di cammino erano in tutto venti minuti. Ma Vladimir era appena uscito dalla cinta nella campagna quando si levò il vento e si formò un tal turbine di neve ch’egli non vide più nulla. In un minuto la strada fu coperta; i dintorni sparirono in una caligine torbida e giallastra, attraverso cui volavano bianchi fiocchi di neve; il cielo si fuse con la terra; Vladimir si trovò in un campo e invano voleva nuovamente raggiungere la strada; il cavallo avanzava alla cieca e a ogni istante o saliva su un cumulo di neve o sprofondava in una buca; la slitta si rovesciava di continuo. Vladimir cercava solo di non perdere la giusta direzione. Ma gli pareva che fosse ormai trascorsa oltre mezz’ora, e non era ancora arrivato al boschetto di Zadrino. Passarono ancora circa dieci minuti: il boschetto non si vedeva tuttavia. Vladimir andava per una campagna intersecata da profondi borri. La tempesta di neve non cessava, il cielo non schiariva. Il cavallo cominciava ad essere stanco, e lui grondava di sudore, nonostante fosse in tutti i momenti nella neve fino alla cintola. Finalmente vide che non andava da quella parte. Vladimir si fermò; cominciò a rammentare, a considerare e si convinse che doveva prendere a destra. Andò a destra. Il suo cavallo procedeva a stento. Era in cammino da più di un’ora. Zadrino non doveva essere lontano. Ma egli andava, andava e i campi non avevano fine. Sempre cumuli di neve e burroni; la slitta si ribaltava a ogni istante, a ogni istante lui la risollevava. Il tempo scorreva; Vladimir cominciava a inquietarsi. Infine da una parte qualcosa prese a nereggiare. Vladimir piegò di là. Approssimandosi, scorse un boschetto. Grazie a Dio, pensò, ora è vicino. Fiancheggiò il boschetto, sperando di capitar subito sulla nota strada o di girare attorno al bosco; Zadrino si trovava subito là dietro. In breve scoperse la strada ed entrò nel buio degli alberi, spogliati dall’inverno. Il vento non vi poteva infuriare: la strada era piana; il cavallo si rinfrancò e Vladimir si tranquillizzò. Ma egli andava, andava e Zadrino non si vedeva; il bosco non aveva fine. Vladimir con terrore si avvide di essere entrato in un bosco ignoto. La disperazione si impadronì di lui. Sferzò il cavallo; la povera bestia volle prendere il trotto, ma presto fu stanca e dopo un quarto d’ora si mise al passo, nonostante tutti gli sforzi del disgraziato Vladimir. A poco a poco gli alberi cominciarono a diradare e Vladimir uscì dal bosco; Zadrino non si vedeva. Doveva essere circa mezzanotte. Lacrime sgorgarono dai suoi occhi; era andato alla ventura. Il tempo si era calmato, le nubi si disperdevano; davanti a lui si stendeva una pianura, coperta d’un bianco tappeto ondulato. La notte era abbastanza chiara. Egli scorse non lontano un villaggetto composto da quattro o cinque case. Vladimir vi si diresse. Presso la prima capanna saltò giù dalla slitta, corse a una finestra e prese a bussare. Dopo qualche minuto lo scuretto di legno si alzò, e un vecchio sporse la sua barba bianca. – Che vi occorre? – E’ lontano Zadrino? – Zadrino, se è lontano? – Sì, sì! E’ lontano? – Non lontano: saranno una decina di verste. A questa risposta Vladimir si afferrò per i capelli e rimase immobile, come un uomo condannato a morte. – E di dove sei tu? – continuò il vecchio. Vladimir non era d’umore da rispondere a domande. – Puoi tu, vecchio – disse, – procurarmi i cavalli per andare a Zadrino? – Che cavalli abbiamo noi? – rispose il contadino. – Ma non posso prendere anche solo una guida? Pagherò quanto vorrà. – Aspetta – disse il vecchio, abbassando lo scuretto, – ti manderò mio figlio; lui ti condurrà. Vladimir si mise ad aspettare. Non era passato mezzo minuto che già aveva ricominciato a bussare. L’imposta si alzò, la barba comparve. – Che cosa vuoi? – Ebbene, tuo figlio? – Ora uscirà, si sta calzando. Che sei intirizzito? Entra a scaldarti. – Grazie; manda presto il figlio. Il portone cigolò; un giovanotto uscì con un randello e andò avanti, ora indicando, ora cercando la strada, ingombra di mucchi di neve. – Che ore sono? – gli domandò Vladimir. – Presto farà giorno – rispose il giovane contadino. Vladimir non disse più parola. Cantavano i galli e faceva ormai chiaro, quando giunsero a Zadrino. La chiesa era chiusa. Vladimir pagò la guida e andò in cortile dal sacerdote. Nella corte la sua troika non c’era. Qual notizia lo aspettava! Ma torniamo ai buoni proprietari di Nienaradovo e vediamo che accadde a casa loro. Ma nulla. I vecchi si sono svegliati e sono passati in salotto, Gavrila Gavrilovič in berretto da notte e giacca di baietta, Praskovia Petrovna in vestaglia ovattata. Hanno portato il samovar, e Gavrila Gavrilovič a mandato una ragazzuccia a saper da Maria Gavrilovna come va la sua salute e come ha passato la notte. La ragazzuccia è tornata annunciando che la signorina ha avuto una cattiva notte, ma che ora si sente meglio e che verrà subito in salotto. Infatti la porta si apre e Maria Gavrilovna si accosta a dir buongiorno a babbo e mamma. – Come va la tua testa, Maša? – domandò Gavrila Gavrilovič. – Meglio, babbo – rispose Maša. – Certamente, Maša, ieri ti fece male l’odore del carbone – – Può darsi, mamma – rispose Maša. La giornata passò felicemente, ma nella notte Maša si sentì indisposta. Mandarono in città a chiamare il medico. Arrivò verso sera e trovò l’ammalata in delirio. Si dichiarò un violento febbrone e la povera inferma fu per due settimane sull’orlo della tomba. Nessuno in casa sapeva della progettata fuga. Le lettere da lei scritte alla vigilia erano state bruciate; la sua cameriera non aveva detto nulla a nessuno, paventando l’ira dei padroni. Il prete, la cornetta in ritiro, il baffuto agrimensore e il piccolo ulano furono discreti, e non per nulla. Il cocchiere Terioska non diceva mai niente di troppo, neppure da brillo. In tal modo il segreto fu conservato meglio che da una mezza dozzina di congiurati. Ma la stessa Maria Gavrilovna, nell’incessante delirio, disse il suo segreto. Le sue parole eran però tanto incoerenti, che la madre, la quale non si scostava dal suo letto, poté da esse solo capire che la figlia era follemente innamorata di Vladimir Nikolaevič e che, verosimilmente, l’amore era la causa del suo male. Ella si consigliò col proprio marito, con alcuni vicini, e infine tutti decisero unanimi che, si vede, tale era il destino di Maria Gavrilovna, che alla propria sorte non si sfugge, che povertà non è vizio, che non con la ricchezza si vive, ma con un uomo, e simili cose. Le sentenze morali riescono mirabilmente utili nei casi in cui da parte nostra poco possiamo inventare a nostra giustificazione. Intanto la signorina cominciò a rimettersi. Vladimir da un bel pezzo non lo si vedeva in casa di Gavrila Gavrilovič. Era stato impaurito dall’accoglienza consueta. Risolsero di mandare a cercarlo e di annunciargli l’inaspettata fortuna: il consenso al matrimonio. Ma quale fu lo stupore dei proprietari di Nienaradovo quando, in risposta al loro invito, ricevettero da lui una lettera seminsensata! Egli dichiarava che non avrebbe mai più messo piede in casa loro, e pregava di dimenticare un infelice per il quale unica speranza restava la morte. Qualche giorno dopo seppero che Vladimir era partito per rientrare nell’esercito. Ciò accadde nel 1812. Per lungo tempo non osarono darne notizia a Maria convalescente. Ella non menzionava mai Vladimir. Già alcuni mesi dopo, avendo trovato il suo nome nel novero di quelli che s’erano distinti ed erano stati gravemente feriti a Borodino, svenne e temettero che le tornasse il febbrone. Grazie a Dio, però, il delirio non ebbe conseguenze. Un altro dolore la provò: Gavrila Gavrilovič spirò lasciandola erede di tutto il suo avere. Ma l’eredità non la consolò; ella dividette sinceramente l’afflizione della povera Praskovia Petrovna, giurava di non separarsi mai da lei; le due lasciarono Nienaradovo, sito di tristi ricordi, e andarono ad abitare la prprietà di ***. I pretendenti rotavano anche qui intorno alla graziosa e ricca fanciulla; ma ella non dava ad alcuno la pur minima speranza. La madre a volte la esortava a scegliersi un amico; Maria Gavrilovna scoteva il capo e si faceva pensierosa. Vladimir non era più; era morto a Mosca, alla vigilia dell’entrata dei francesi. La sua memoria pareva sacra per Maša; almeno ella conservava tutto ciò che poteva ricordarlo: i libri letti un tempo da lui, i suoi disegni, le note e i versi da lui trascritti per lei. I vicini, venuti a sapere ogni cosa, si stupivano della sua costanza e aspettavano con curiosità l’eroe che avrebbe dovuto alfine trionfare della mesta fedeltà di quella vergine Artemide. Frattanto la guerra era finita gloriosamente. I nostri reggimenti tornavan d’oltre frontiera. La gente correva lor incontro. La musica suonava il canto dei vinti: Vive Henri-Quatre, valzer tirolesi e arie della “Gioconda”. Gli ufficiali, partiti in campagna quasi giovinetti, rientravano, fatti uomini dalla guerra, coperti di decorazioni. I soldati conversavano allegri tra loro, mischiando a ogni istante nel discorso parole tedesche e francesi. Tempi indimenticabili! Tempi di gloria e di entusiasmo! Come batteva forte il cuore russo alla parola “patria”! Com’erano dolci le lacrime del rivedersi! Con che accordo riunivamo i sentimenti dell’orgoglio nazionale e dell’amore al sovrano! E per lui, qual minuto! Le donne, le donne russe furono allora incomparabili. La loro abituale freddezza era scomparsa. Il loro entusiasmo era davvero inebriante, quando, incontrando i vincitori, gridavano “Urrà!” e in aria le cuffiette gettavano… Chi degli ufficiali d’allora non riconosce che alla donna russa andò debitore della migliore, più preziosa ricompensa?… In quegli splendidi tempi Maria Gavrilovna viveva con la madre nella provincia di *** e non vide come le due capitali festeggiavano il ritorno delle truppe. Ma nei distretti e nei villaggi l’entusiasmo generale era forse ancor più vivo. La comparsa in quei luoghi d’un ufficiale era per quest’ultimo un vero trionfo, e un innamorato in marsina stava male vicino a lui. Già dicemmo che, nonostante la sua freddezza, Maria Gavrilovna era sempre come prima circondata da pretendenti. Ma tutti dovettero ritirarsi, quando comparve nel suo castello il colonnello degli ussari ferito Burmin, col nastrino di San Giorgio all’occhiello e con un pallore interessante, come dicevano le signorine d’allora. Aveva circa ventisei anni. Era venuto in licenza nei suoi possedimenti, che si trovavano vicino alla campagna di Maria Gavrilovna. Maria Gavrilovna lo preferiva a tutti. In sua presenza la consueta malinconia di lei si animava. Non si poteva dire che civettasse con lui; ma un poeta, notando il suo comportamento, avrebbe detto: S’amor non è, che dunque è?… Burmin era, in realtà, un graziosissimo giovane. Aveva precisamente quello spirito che piace alle donne: lo spirito d’opportunità e d’osservazione, senza pretese d’alcun genere e spensieratamente canzonatorio. Il suo contegno con Maria Gavrilovna era semplice e franco; ma, qualunque cosa ella dicesse o facesse, l’anima e gli sguardi di lui la seguivano. Egli pareva d’indole quieta e modesta, ma le voci assicuravano che un tempo era stato un terribile rompicollo e ciò non gli noceva nell’opinione di Maria Gavrilovna, la quale (come tutte le giovani signore in generale) scusava volentieri le monellerie che denotavano audacia e focosità di carattere. Ma più di tutto… (più della sua tenerezza, più della gradevole conversazione, più dell’interessante pallore, più del braccio fasciato) il silenzio del giovane ussaro più di tutto eccitava la sua curiosità e la sua immaginazione. Ella non poteva non riconoscere che le piaceva molto; probabilmente anche lui, con la sua intelligenza ed esperienza, aveva ormai potuto notare che ella lo prediligeva; come mai finora non l’aveva visto ai suoi piedi e non aveva sentito ancora la sua confessione? Che cosa lo tratteneva? La timidezza, inseparabile dall’amor vero, orgoglio, o civetteria di scaltro vagheggino? Ciò era per lei un enigma. Dopo aver pensato per benino, concluse che la timidezza n’era l’unica ragione e risolse di incoraggiarlo con maggiori attenzioni e, secondo i casi, perfino con la tenerezza. Apparecchiava lo scioglimento più imprevisto e con impazienza attendeva il momento della romantica dichiarazione. Un segreto, di qualunque specie sia, è sempre grave a un cuore femminile. Le operazioni militari di lei ebbero l’esito desiderato: almeno, Burmin si era fatto così pensoso, e i suoi occhi neri con tal fuoco si fermavano su Maria Gavrilovna, che il minuto decisivo pareva ormai prossimo. I vicini parlavan di nozze come di cosa già fatta e la buona Praskovia Petrovna si allietava che sua figlia si fosse al fine trovato un degno sposo. La vecchietta sedeva un giorno sola in salotto, facendo il grande solitario, quando Burmin entrò nella stanza e subito s’informò di Maria Gavrilovna. – E’ in giardino, – rispose la vecchietta – andate da lei e io vi aspetterò qui. Burmin uscì e la vecchietta si fece il segno della croce e pensò: “Chi sa che la cosa non si concluda oggi!”. Burmin trovò Maria Gavrilovna presso il laghetto, sotto un salice, con un libro in mano e in veste bianca, vera eroina di romanzo. Dopo le prime domande, Maria Gavrilovna a bella posta lasciò cadere la conversazione, accrescendo in tal modo il vicendevole imbarazzo, al quale non era possibile sottrarsi se non con un’improvvisa e risoluta spiegazione. E così accadde: Burmin, sentendo la difficoltà della sua posizione, dichiarò che cercava da un pezzo l’occasione di aprirle il suo cuore, e chiese un minuto di attenzione. Maria Gavrilovna chiuse il libro e chinò gli occhi in segno di assenso. – Io vi amo, – disse Burmin – vi amo pazzamente…- (Maria Gavrilovna arrossì e abbassò ancor più il capo) – Ho agito imprudentemente abbandonandomi a una cara consuetudine, alla consuetudine di vedervi e sentirvi ogni giorno… – (Maria Gavrilovna rammentò la prima lettera di Saint-Preux). – Ormai è tardi per oppormi alla mia sorte; il vostro ricordo, la vostra gentile, incomparabile immagine sarà da oggi il tormento e la consolazione della mia vita;ma ancora mi resta da compiere un penoso dovere, da svelarvi un orribile segreto e porre tra noi un’insormontabile barriera… – Essa è sempre esistita, – interruppe con vivacità Maria Gavrilovna, – non avrei mai potuto essere vostra moglie… – Lo so, – le rispose egli piano – so che un tempo amaste; ma la morte e tre anni di pianti… Buona, gentile Maria Gavrilovna! Non cercate di privarmi dell’ultimo conforto: il pensiero che avreste acconsentito a fare la mia felicità, se… – Tacete, per amor di Dio, tacete. Mi torturate. – Sì, lo so, lo sento che sareste stata mia, ma io sono la creatura più sventurata… io sono sposato! Maria Gavrilovna lo guardò con meraviglia. – Sono sposato, – continuò Burmin – è ormai il quarto anno che lo sono, e non so chi è mia moglie, e dov’è e se dovrò vederla un giorno! – Che dite? – esclamò Maria Gavrilovna – Com’è strano! Continuate; racconterò dopo… ma continuate, fatemi la grazia. – Al principio del 1812, – disse Burmin – mi affrettavo verso Vilna, dove si trovava il nostro reggimento. Una volta arrivai a una stazione di posta a sera tarda, e stavo per ordinar di attaccare al più presto i cavalli, quando d’un tratto si levò una tremenda tempesta di neve, e il maestro di posta e i postiglioni mi consigliarono di aspettare. Diedi loro retta, ma un’inspiegabile inquietudine s’impadronì di me; pareva che qualcuno di continuo mi spingesse. Intanto la bufera non si calmava; non pazientai, diedi nuovamente ordine di attaccare e di partire in piena tempesta. Al postiglione venne l’idea di prendere per il fiume, ciò che doveva abbreviarci il cammino di tre verste. Le rive erano ingombre; il postiglione passò il punto dove si tornava alla strada, e in tal modo ci trovammo in un sito sconosciuto. La tempesta non si placava; vidi un fuocherello e ordinai di andare lì. Arrivammo in un villaggio; nella chiesa di legno vi era luce. La chiesa era aperta; dietro il recinto stavano alcune slitte; per il sagrato camminava gente. “Qua! qua!” gridarono varie voci. Ordinai al postiglione di accostarsi. “Misericordia, dove ti sei attardato?”, mi disse qualcuno, “la sposa è svenuta; il prete non sa che fare; eravamo sul punto di andarcene indietro. Scendi giù, presto!” Io in silenzio saltai fuori dalla slitta ed entrai nella chiesa, debolmente rischiarata da due o tre candele. Una fanciulla sedeva a un banco in un angolo scuro della chiesa; un’altra le stropicciava le tempie. “Sia lodato Dio”, disse questa, “finalmente siete giunto. Per poco non avete fatto morire la signorina”. Un vecchio sacerdote mi si accostò con la domanda: “Ordinate di cominciare?”. “Cominciate, cominciate, padre”, risposi distrattamente. Sollevarono la fanciulla. Mi parve bellina… Un’incomprensibile, imperdonabile leggerezza… mi misi accanto a lei davanti al leggio; il sacerdote andava di fretta; tre uomini e la cameriera sostenevano la sposa e si affaccendavano solo intorno a lei. Ci sposarono. “Baciatevi”, ci dissero. Mia moglie mi volse il suo pallido viso. Volevo baciarla… Ella gridò: “Ah, non è lui, non è lui!”, e cadde priva di sensi. I testimoni fissarono su di me gli occhi spaventati. Io mi voltai, uscii dalla chiesa senza alcun impedimento, mi gettai nella kibitka e gridai: “Andiamo!”. – Dio mio! – gridò Maria Gavrilovna – E non sapete che ne è stato della vostra povera moglie? – Non so, – rispose Burmin – non so come si chiami il villaggio dove mi sposai; non ricordo da che stazione di posta fossi partito. A quel tempo davo così poca importanza alla mia colpevole gherminella che, partito dalla chiesa, mi addormentai e mi destai la mattina del giorno dopo, ormai alla terza stazione. Il servo che era allora con me morì nella campagna, cosicché non ho neppur la speranza di ritrovare colei di cui mi feci beffa così crudelmente e che ora è così crudelmente vendicata. – Dio mio, Dio mio! – disse Maria Gavrilovna, afferrandogli la mano – eravate dunque voi! E non mi riconoscete? Burmin impallidì… e si gettò ai suoi piedi. ~~~~ Scrivi Cancella commentoLa tua email non sarà pubblicataCommentaNome* Email* Sito Salva il mio nome, email e sito web in questo browser per la prossima volta che commento. Hai disabilitato Javascript. Per poter postare commenti, assicurati di avere Javascript abilitato e i cookies abilitati, poi ricarica la pagina. Clicca qui per istruzioni su come abilitare Javascript nel tuo browser.