Si sente troppo spesso parlare del difficile rapporto (anche se non è sempre così in realtà) che lega autori ed editori, specialmente se i primi non sono proprio alle prime armi, ma non ci si domanda mai abbastanza quale sia il vero ruolo dei secondi.

Il lavoro dell’editore è la cosiddetta mediazione editoriale: egli si fa ponte tra domanda e offerta, cercando di mantenerne il delicato equilibrio.

Partendo dal presupposto che le due “fazioni” (giusto per accentuarne leggermente le diversità!) perseguono obiettivi diversi, ma non diametralmente opposti, le due funzioni a cui assolvono, letteraria i primi ed editoriale i secondi, sono legate indissolubilmente.

 

Se si tenesse conto solo del criterio commerciale, puntando semplicemente a soddisfare i bisogni del pubblico, si tralascerebbero i testi più sperimentali, intellettuali, elaborati, e così via.

 

Se, d’altra parte, si editassero solo libri al di sopra delle capacità medie di questo pubblico, l’editoria subirebbe un tracollo, nessuno comprerebbe più nelle librerie, la lettura non sarebbe più un piacevole svago (come lo è per la maggior parte delle persone), ma risulterebbe uno sforzo intellettuale troppo dispendioso per essere intrapreso.

 

Insomma, lo sforzo più oneroso per l’editore è quello di tenere bilanciato questo rapporto, sempre in una condizione di equilibrio instabile, tra quella che è la domanda del pubblico e ciò che impongono il suo senso estetico e il gusto letterario (tenendo presente che, quando parliamo di editori, intendiamo sempre un gruppo di persone, letterati e professionisti del mestiere, che non solo sanno operare negli aspetti più tecnici, ma possiedono anche competenze intellettuali e critiche al di sopra della media).

 

Il testo, quando viene ultimato, esiste.

Esiste di per sé, ha una vita propria. Eppure questa vita, non essendo esso socialmente condiviso, non ha valore (Spinazzola stesso sottolinea l’aspetto sociale degli atti di lettura e scrittura: “un oggetto scritto acquista valore solo quando c’è qualcuno che lo legge”).

Ecco che entra in gioco il ruolo di mediazione dell’editore: egli ha il compito fondamentale di far diventare il testo un libro.

 

L’editore sta nel mezzo, media le due cose: prende il primo dallo scrittore e porta il secondo al lettore.

L’edizione è infatti il risultato visibile e tangibile di questa trasformazione.

 

L’atto che compie non è privo di interpretazione: quando ci troviamo di fronte ad una qualsiasi edizione dobbiamo sempre chiederci perché è stata fatta, a chi si rivolge, quali caratteristiche avrà voluto sottolineare l’editore, e così via.

Non porci queste domande comporta una lettura parziale dell’opera poiché ci rimangono celati tutti i significati nascosti del libro che abbiamo tra le mani.

 

Dunque la casa editrice dovrà innanzitutto selezionare l’offerta (davvero vastissima, basti pensare a quanti autori emergenti nascono ogni giorno e ogni ora).

Le scelte dovranno per forza di cose basarsi su quello che è il mercato dell’epoca in cui si opera, rimanendo sempre sensibili ai nuovi gusti e alle tendenze consolidate.

 

Bilanciare domanda e offerta è la parola chiave della mediazione editoriale.

Compiere le scelte giuste, al momento giusto, collocando gli autori nel modo giusto.

Il fallimento di questa collocazione non è altro che il fallimento della mediazione (nessuna o scarse vendite, aspettative del pubblico deluse, autori frustrati e tracollo economico…).

 

L’editore dunque compie il suo intervento tenendo unite le istanze commerciali e le esigenze dei lettori, mantenendo intrecciati interessi economici e servizi socioculturali, un filo rosso tra principio di produttività aziendale e principio di utilità collettiva.

 

Raggiungere obiettivi economici cercando contemporaneamente di migliorare il mondo attraverso la cultura: ecco il complesso lavoro di mediazione dell’editore.

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