In questa lettera-romanzo spassionata, Wilde espone senza più imporsi alcun limite tutte le vicende drammatiche che l’hanno condotto alla rovina, alla prigione, alla diffamazione, alla povertà, all’essere allontanato definitivamente dalla moglie e dai suoi amati figli, al biasimo di gran parte che un tempo lo avrebbero acclamato.

 

 

Gli dèi sono strani. Non si servono solo dei nostri vizi per flagellarci. Ci conducono alla rovina anche attraverso ciò che in noi è buono, gentile, umano, amabile.

 

Solo pochi amici restano fedeli a quel genio pieno di talento che, lasciandosi ammaliare da un giovane privo di scrupoli e intellettualmente molto diverso da Wilde stesso, rimane invischiato in loschi intrighi familiari, trovandosi infine accusato di atti ingiusti e additato come uomo vile, privo di rimorsi e di dignità.

 

Io avevo lasciato che tu risucchiassi la mia forza di carattere: per me, quindi, l’acquisire un’abitudine si era rivelato non soltanto un errore, ma una rovina. Moralmente eri stato per me ancora più distruttivo di quanto non lo fossi stato per la mia arte.

 

Il grande uomo Wilde, chiuso tra le mura di una prigione, passa le sue giornate insieme agli altri detenuti, piangendo e rammaricandosi di ogni scelta che ha causato la sua attuale situazione, riflettendo e rivivendo attimo dopo attimo le infamie, i litigi, le scenate, le suppliche, gli screzi, le assurdità di una parte della sua esistenza vissuta accanto al miserrimo e meschino Lord Alfred Douglas.

 

Il ricordo del nostro antico affetto viene spesso a visitarmi e il pensiero che l’odio, l’amarezza e il disprezzo debbano per sempre insediarsi nel mio animo, là dove un tempo regnava l’amore, è troppo triste per me.

 

 

Illudendosi di poter cambiare l’animo di un uomo, Wilde ripercorre amareggiato le vicende tristemente rese pubbliche ai più, nate da un disprezzo reciproco tra l’amico opportunista Lord Douglas e il padre di quest’ultimo: usando lo scrittore quale mezzo di contrasto, i due si attaccano reciprocamente fino al più completo disastro.

 

Anch’io avevo le mie illusioni. Pensavo alla vita come a una brillante commedia e a te come a uno dei suoi graziosi personaggi. Scoprii invece come fosse una tragedia ripugnante. […] È l’ombra che mi segue passo passo; che pare non abbandonarmi mai; che mi sveglia di notte per ripetermi senza tregua sempre la stessa storia, finché la sua ossessionante iterazione costringe il sonno ad abbandonarmi fino all’alba; all’alba comincia di nuovo; mi insegue fino nel cortile della prigione e mi fa parlare tra me e me mentre faccio il giro; sono costretto a ricordare ogni particolare che distinse ogni terribile momento: rivivo tutto quanto accadde in quei malaugurati anni in quella camera del cervello che è sempre a disposizione per il dolore e lo sconforto.

 

 

La lettera che Wilde scrisse durante la prigionia è un racconto spassionato di ciò che nel suo cuore albergava, di ciò che la sua amicizia, unilaterale, per Douglas poté causare, le nefande conseguenze che, irreparabili, piombarono nella sua vita, conducendolo al disprezzo di sé, ma ancora di più al disprezzo di chi tanto aveva amato.

 

 

Credi davvero di essere stato degno dell’amore che ti portavo in un qualsiasi periodo della nostra amicizia, credi che per un solo momento io abbia pensato che tu lo fossi? Sapevo che non lo eri. Ma l’amore non si contratta al mercato né lo si misura con la bilancia del truffatore. Lo scopo dell’amore è l’amore: né più né meno. Tu mi fosti nemico: un nemico come mai ebbe un uomo. Ti avevo donato la mia vita: tu la gettasti via per appagare le più basse e spregevoli di tutte le passioni umane, l’odio, la vanità e la cupidigia. In meno di tre anni mi avevi completamente rovinato sotto ogni punto di vista.

 

 

E, alla fine, l’unica conclusione a cui può arriva l’animo di Wilde è che solo il perdono potrà guarire la ferita: un perdono non solo di colui che credeva amico, ma innanzitutto il perdono verso se stesso, per essersi abbandonato al sentimento, per aver messo da parte la propria preziosa arte, per aver dimenticato chi realmente fosse.

 

Sono costretto a perdonarti. Lo devo fare. Non scrivo questa lettera per instillare amarezza nel tuo cuore, ma per strapparla dal mio. Per il mio stesso bene devo perdonarti. Non si può continuare a nutrire una serpe in seno, non ci si può levare ogni notte per seminare spine nel giardino della propria anima. […] Per quanto sia stato terribile quello che mi hai fatto, è stato ancora più terribile quello che io ho fatto a me stesso.

 

 

L’insegnamento più grande che emerge dalle ultime pagine della lettera è che, nonostante l’oscurità inghiotta la nostra vita, niente è perduto per sempre: dalla fine nasce sempre un nuovo inizio, basta semplicemente avere la forza e il coraggio di rialzarsi e di guardare avanti, riscoprendo tutta quella bellezza che ancora il mondo ci riserva.

 

 

Ho davanti a me cose da fare in sì gran numero che considererei una spaventosa tragedia il fatto di morire prima di averle effettuate almeno in parte. Vedo nuovi possibili sviluppi nell’arte e nella vita, ognuno dei quali è una nuova forma di perfezione. Desidero ardentemente vivere così da poter esplorare quello che per me è un mondo totalmente nuovo. […] Quale principio! Può essere realmente così. Può diventarlo.

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