La dimensione leggendaria di un viaggio

 

Fuori dalle montagne comincia la piana degli italioti deambulanti con telefonino in canna. È il mio popolo in apnea sotto nubi monsoniche, incolonnato nel labirinto di una viabilità demenziale. Capannoni, erbe matte, frane e viadotti: la dilapidazione del territorio e l’insulto della memoria sono visibili ovunque in questo spazio che sembra aver perduto ogni linea maestra. ROMA LADRONA c’è scritto in stampatello su un muro, ma anche le urla secessioniste della Padania paiono espressione dello stesso sfacelo tricolore.

Già alla periferia di Cuneo mi invade un senso di decadenza così atroce che in un attimo di nostalgia rivedo il golfo di Cartagena e i bei colori della Sierra Minera accesi nel tramonto. Risento il gusto della birra bevuta con Pilar sul lungomare e il borbottio dei pescherecci in uscita per la pesca allo sgombro.

“Italiener keine Mannschaft”. Gli italiani non fanno squadra, mi ha detto un giorno uno studioso tedesco osservando che in Italia l’ordine imbattibile delle legioni era rimasto senza eredi e si era semmai reincarnato nella Germania di Federico il Grande. Anche le Gallie, che pure si sono opposte duramente ai Romani, si sono arricchite di un senso della res publica ben più forte di quello cisalpino.

Inevitabile chiedersi cosa abbia sfigurato l’antica virtù romana proprio nel suo glorioso baricentro. Il Vaticano? I lussi del tardo Impero? L’assenza di una Riforma protestante? La minor presenza di fresco sangue barbarico? O forse a rendere così intollerabile la contemporaneità italiana è solo la dimensione leggendaria di questo viaggio e lo smarrimento che provo ogni volta a uscirne?

I soldati cartaginesi morirono guardando in faccia il nemico. E i Celti non erano da meno: Polibio racconta che Annibale ne ha catturati alcuni e se li è portati dietro come ostaggi dalle valli francesi dove ha subito continui attacchi. Costoro avevano pesanti catene, erano oppressi dalla fame e i loro corpi erano stati sfigurati dai colpi ricevuti. Il Generale li presentò alle truppe e mise costoro davanti alle loro armature galliche, di quelle che di solito sfoggiavano i loro re quando dovevano combattere in duello. Inoltre fece mettere lì accanto dei cavalli e fece portare dei sontuosi mantelli.

A questo punto il Generale chiese ai giovani prigionieri quali volessero combattere fra loro, con la condizione che il vincitore ottenesse i premi che stavano lì davanti e lo sconfitto si liberasse dei male presenti con la morte. Ebbene, tutti insieme gridarono e manifestarono il desiderio di affrontare il duello, così egli dispose che si tirasse a sorte e ordinò che i due estratti si armassero e combattessero fra loro.

Appena udito ciò, i giovani, sollevando le mani, rivolsero preghiere agli dei, ciascuno nel desiderio di essere tra i sorteggiati. Poi, a combattimento avvenuto, i prigionieri rimasti da parte chiamarono felice il morto non meno del vincitore, perché si era liberato di molti e gravi mali che continuavano a opprimere gli altri.

E noi, uomini dell’arrogante terzo millennio?

~~~~

Scrivi

La tua email non sarà pubblicata