LIBRO DECIMO DELL’ODISSEA, di Omero Leggere - Facile Settembre 4, 2017 Silvae et alia [È questo il libro in cui viene narrato l’incontro tra l’eroe Ulisse e la maga Circe] Giungemmo nell’Eolia, ove il diletto Agl’immortali Dei d’Ippota figlio, Eolo, abitava in isola natante, Cui tutta un muro d’infrangibil rame, E una liscia circonda eccelsa rupe. Dodici, sei d’un sesso, e sei dell’altro, Gli nacquer figli in casa; ed ei congiunse Per nodo marital suore, e fratelli, Che avean degli anni il più bel fior sul volto. Costoro ciascun dì siedon tra il padre Caro, e l’augusta madre, ad una mensa Di varie carca dilicate dapi. Tutto il palagio, finchè il giorno splende, Spira fragranze, e d’armonie risuona. Poi, caduta su l’isola la notte, Chiudono al sonno le bramose ciglia In traforati, e attappezzati letti Con le donne pudiche i fidi sposi. Questo il paese fu, questo il superbo Tetto, in cui me per un intero mese Co’ modi più gentili Eolo trattava. Di molte cose mi chiedea: di Troja, Del navile de’ Greci, e del ritorno; E il tutto io gli narrai di punto in punto. Ma come, giunta del partir mio l’ora, Parole io mossi ad impetrar licenza, Ei, non che dissentir, del mio viaggio Pensier si tolse, e cura; e della pelle Di bue novenne presentommi un otre, Che imprigionava i tempestosi venti: Poichè de’ venti dispensier supremo Fu da Giove nomato; ed a sua voglia Stringer lor puote, o rallentare il freno. L’otre nel fondo del naviglio avvinse Con funicella lucida d’argento, Che non ne uscisse la più picciol’aura; E sol tenne di fuori un opportuno Zefiro, cui le navi, e i naviganti Diede a spinger su l’onda. Eccelso dono, Che la nostra follia volse in disastro! Nove dì senza posa, e tante notti Veleggiavamo; e già veniaci incontro Nel decimo la patria, e omai vicini Quei vedevam, che raccendeano i fochi: Quando me stanco, perch’io regger volli Della nave il timon, nè in mano altrui, Onde il corso affrettar, lasciarlo mai, Sorprese il sonno. I miei compagni intanto Favellavan tra loro, e fean pensiero, Che argento, ed oro alle mie case, doni Del generoso Ippotade, io recassi. Numi! come di sè, dicea taluno Rivolto al suo vicin, tutti innamora Costui, dovunque navigando arriva! Molti da Troja dispogliata arredi Riporta belli, e prezïosi; e noi, Che le vie stesse misurammo, a casa Torniam con le man vôte. In oltre questi L’Ippotade gli diè pegni d’amore. Orsù, veggiam quanto in suo grembo asconda D’oro, e d’argento la bovina pelle. Così prevalse il mal consiglio. L’otre Fu preso, e sciolto; e immantinente tutti Con furia ne scoppiâr gli agili venti. La subitana orribile procella Li rapìa dalla patria, e li portava Sospirosi nell’alto. Io, cui l’infausto Sonno si ruppe, rivolgea nell’alma, Se di poppa dovessi in mar lanciarmi, O soffrir muto, e rimaner tra i vivi. Soffrii, rimasi: ma, coverto il capo, Giù nel fondo io giacea, mentre le navi, Che i compagni di lutto empieano indarno, Ricacciava in Eolia il fiero turbo. Scendemmo a terra, acqua attignemmo, e a mensa Presso le navi ci adagiammo. Estinta Del cibarsi, e del ber l’innata voglia, Io con un de’ compagni, e con l’araldo, M’inviai d’Eolo alla magion superba; E tra la dolce sposa, e i figli cari Banchettante il trovai. Sul limitare Sedevam della porta. Alto stupore Mostraro i figli, e con parole alate, Ulisse, mi dicean, come venistu? Qual t’assalì Demone avverso? Certo Cosa non fu da noi lasciata indietro, Perchè alla patria, e al tuo palagio, e ovunque Ti talentasse più, salvo giungessi. Ed io con petto d’amarezza colmo: Tristi compagni, e un sonno infausto a tale Condotto m’hanno. Or voi sanate, amici, Che il potete, tal piaga. In questa guisa Le anime loro io raddolcir tentai. Quelli ammutiro. Ma il crucciato padre, Via, rispose, da questa isola, e tosto, O degli uomini tutti il più malvagio: Chè a me nè accor, nè rimandar con doni Lice un mortal, che degli Eterni è in ira. Via, poichè l’odio lor qua ti condusse. Così Eolo sbandia me dal suo tetto, Che de’ gemiti miei tutto sonava. Mesti di nuovo prendevam dell’alto: Ma si stancavan di lottar con l’onda, Remigando, i compagni, e del ritorno Moria la speme ne’ dogliosi petti. Sei dì navigavamo, e notti sei; E col settimo Sol della sublime Città di Lamo dalle larghe porte, Di Lestrigonia, pervenimmo a vista. Quivi pastor, che a sera entra col gregge, Chiama un altro, che fuor con l’armento esce. Quivi uomo insonne avria doppia mercede, L’una pascendo i buoi, l’altra le agnelle Dalla candida lana: sì vicini Sono il diurno, ed il notturno pasco. Bello, ed ampio n’è il porto: eccelsi scogli Cerchianlo d’ogni parte, e tra due punte, Che sporgon fuori, e ad incontrar si vanno, S’apre un’angusta bocca. I miei compagni, Che nel concavo porto a entrar fur pronti, Propinque vi tenean le ondivaganti Navi, e avvinte tra lor; quando nè grande Vi s’alza mai, nè picciola onda, e sempre Una calma vi appar tacita, e bianca. Io sol rimasi col naviglio fuori, Che al sasso estremo con intorta fune Raccomandai: poi, su la rupe asceso, Quanto si discopria, mirava intorno. Lavor di bue non si scorgea, nè d’uomo: Sol di terra salir vedeasi un fumo. Scelgo allor due compagni, e con l’araldo Màndoli a investigar, quali l’ignota Terra produce abitatori e nutre. La via diritta seguitâr, per dove I carri conduceano alla cittade Dagli alti monti la troncata selva; E s’abbattero a una real fanciulla, Del Lestrigone Antifate alla figlia. Che del fonte d’Artacia, onde costuma Il cittadino attignere, in quel punto Alle pure scendea linfe d’argento. Le si fero da presso, e chi del loco Re fosse, e su qual gente avesse impero, La domandaro; ed ella pronta l’alto Loro additò con man tetto del padre. Tocco ne aveano il limitare appena, Che femmina trovâr di sì gran mole, Che rassembrava una montagna; e un gelo Si sentiro d’orror correr pel sangue. Costei di botto Antifate chiamava Dalla pubblica piazza, il rinomato Marito suo, che disegnò lor tosto Morte barbara, e orrenda. Uno afferronne, Che gli fu cena: gli altri due con fuga Precipitosa giunsero alle navi. Di grida la cittade intanto empiea Antifate. I Lestrigoni l’udiro, E accorrean chi da un lato, e chi dall’altro, Forti di braccio, in numero infiniti, E giganti alla vista. Immense pietre Così dai monti a fulminar si diero, Che d’uomini spiranti, e infranti legni Sorse nel porto un suon tetro, e confuso. Ed alcuni infilzati eran con l’aste, Quali pesci guizzanti, e alle ferali Mense future riserbati. Mentre Tal seguìa strage, io, sguainato il brando, E la fune recisa, a’ miei compagni Dar di forza nel mar co’ remi ingiunsi, Se il fuggir morte premea loro; e quelli Di tal modo arrancavano, che i gravi Massi, che piovean d’alto, il mio naviglio Lietamente schivò: ma gli altri tutti Colà restaro sfracellati e spersi. Contenti dello scampo, e in un dogliosi Per li troppi compagni in sì crudele Guisa periti, navigammo avanti, E su l’isola Eéa sorgemmo, dove Circe, Diva terribile, dal crespo Crine, e dal dolce canto, avea soggiorno. Suora germana del prudente Eeta, Dal Sole aggiornator nacque, e da Persa Dell’antico Oceàn figliuola illustre. Taciti a terra ci accostammo, entrammo, Non senza un Dio, che ci guidasse, il cavo Porto, e sul lido uscimmo; e qui due giorni Giacevamo, e due notti, il cor del pari La stanchezza rodendoci, e la doglia. Come recato ebbe il dì terzo l’Alba, Io, presa l’asta, ed il pungente brando, Rapidamente andai sovra un’altezza, Se d’uomo io vedessi opra, o voce udissi. Fermato il piè su la scoscesa cima, Scôrsi un fumo salir d’infra una selva Di querce annose, che in un vasto piano Di Circe alla magion sorgeano intorno. Entrar disposi senza indugio in via, E il paese cercar: poi, ripensando, Al legno in vece rivoltare i passi, Cibo dare ai compagni, e alcuni prima A esplorare inviar, mi parve il meglio. Già tra la nave, e me poco restava: Quando ad un de’ Celesti, in cui pietade Per quella solitudine io destai, Grosso, ed armato di ramose corna Drizzare alla mia volta un cervo piacque. Spinto dal Sole, che il cuocea co’ raggi, De’ paschi uscia della foresta, e al fiume Scendea con labbra sitibonde; ed io Su la spina lo colsi a mezzo il tergo Sì, che tutto il passò l’asta di rame. Nella polve cadè, mandando un grido, E via ne volò l’alma. Accorsi, e, il piede Pontando in esso, dalla fonda piaga Trassi il cerro sanguigno, ed il sanguigno Cerro deposi a terra: indi virgulti Divelsi, e giunchi, attorcigliaili, fune Sei spanne lunga ne composi, e i morti Piedi ne strinsi dell’enorme fera. Al fin sul collo io la mi tolsi, e mossi, Su la lancia poggiandomi, al naviglio: Chè mal potuto avrei sovra una sola Spalla portar così sformata belva. Presso la nave scaricaila; e ratto Con soavi parole i miei compagni, A questo rivolgendomi, ed a quello, Così tentai rianimare: Amici, Prima del nostro dì d’Aide alle porte Non calerem, benchè ci opprima il duolo. Su, finchè cibo avemo, avem licore, Non mettiamli in obblio; nè all’importuna Fame lasciamci consumar di dentro. Quelli, ubbidendo alle mie voci, usciro Delle latebre loro, e, in riva al mare, Che frumento non genera, venuti, Stupian del cervo. Sì gran corpo egli era! E come sazj del mirarlo furo, Ne apparecchiaro non vulgar convito, Sparse prima di chiara onda le palme. Così tutto quel dì sino all’Occaso Di carne opima, e di fumoso vino L’alma riconfortammo: il Sol caduto, E comparse le tenebre, nel sonno Ci seppellimmo al mormorio dell’onde. Ma sorta del mattin la rosea figlia, Tutti io raccolsi a parlamento, e dissi: Compagni, ad onta di guai tanti, udite. Qui, d’onde l’Austro spira, o l’Aquilone, E in qual parte il Sole alza, in qual dechina, Noto non è. Pur consultare or vuolsi, Qual consiglio da noi prender si debba, Se v’ha un consiglio: di che forte io temo. Io d’in su alpestre poggio isola vidi Cinta da molto mar, che bassa giace, E nel cui mezzo un nereggiante fumo D’infra un bosco di querce al ciel si volve. Rompere a questo si sentiro il core, D’Antifate membrando, e del Ciclope La ferocia, i misfatti, e le nefande Della carne dell’uom mense imbandite. Strida metteano, e discioglieansi in pianto. Ma del pianto che pro? che delle strida? Tutti in due schiere uguali io li divisi, E diedi ad ambo un Duce: all’una il saggio Euriloco, e me all’altra. Indi nel cavo Rame dell’elmo agitavam le sorti, Ed Euriloco uscì, che in via si pose Senza dimora. Ventidue compagni, Lagrimando, il seguian; nè affatto asciutte Di noi, che rimanemmo, eran le guance. Edificata con lucenti pietre Di Circe ad essi la magion s’offerse, Che vagheggiava una feconda valle. Montani lupi, e leon falbi, ch’ella Mansuefatti avea con sue bevande, Stavano a guardia del palagio eccelso, Nè lor già s’avventavano; ma in vece Lusingando scotean le lunghe code, E su l’anche s’ergeano. E quale i cani Blandiscono il signor, che dalla mensa Si leva, e ghiotti bocconcelli ha in mano: Tal quelle di forte unghia orride belve Gli ospiti nuovi, che smarriti al primo Vederle s’arretraro, ivan blandendo. Giunti alle porte, la Deessa udiro Dai ben torti capei, Circe, che dentro Canterellava con leggiadra voce, Ed un’ampia tessea, lucida, fina, Maravigliosa, immortal tela, e quale Della man delle Dive uscir può solo. Polite allor, d’uomini capo, e molto Più caro, e in pregio a me, che gli altri tutti, Sciogliea tai detti: Amici, in queste mura Soggiorna, io non so ben, se donna, o Diva, Che, tele oprando, del suo dolce canto Tutta fa risentir la casa intorno. Voce mandiamo a lei. Disse, e a lei voce Mandaro; e Circe di là tosto, ov’era, Levossi, e aprì le luminose porte, E ad entrare invitavali. In un groppo La seguian tutti incautamente, salvo Euriloco, che fuor, di qualche inganno Sospettando, restò. La Dea li pose Sovra splendidi seggi; e lor mescea Il Pramnio vino con rappreso latte, Bianca farina, e mel recente; e un succo Giungeavi esizïal, perchè con questo Della patria l’obblio ciascun bevesse. Preso, e votato dai meschini il nappo, Circe batteali d’una verga, e in vile Stalla chiudeali: avean di porco testa, Corpo, setole, voce; ma lo spirto Serbavan dentro, qual da prima, integro. Così rinchiusi, sospirando, furo: Ed ella innanzi a lor del cornio i frutti Gettava, e della rovere, e dell’elce, De’ verri accovacciati usato cibo. Nunzio verace dell’infausto caso Venne rapido Euriloco alla nave. Ma non potea per iterati sforzi La lingua disnodar: gonfi portava Di pianto i lumi, e un vïolento duolo L’alma gli percotea. Noi, figurando Sventure nel pensier, con maraviglia L’interrogammo; ed ei l’eccidio al fine De’ compagni narrò: Nobile Ulisse, Attraversato delle querce il bosco, Come tu comandavi, eccoci a fronte Magion construtta di politi marmi, Che di mezzo a una valle alto s’ergea. Tessea di dentro una gran tela, e canto Donna, o Diva, chi ’l sa? stridulo alzava. Voce mandaro a lei. Levossi, e aperse Le porte, e ne invitò. Tutti ad un corpo Nella magion disavvedutamente Seguianla: io no, che sospettai di frode. Svaniro insieme tutti; e per istarmi Lungo, ch’io feci, ad esplorare assiso, Traccia d’alcun di lor più non m’apparve. Disse; ed io grande alle mie spalle, e acuta, Spada d’argento bullettata appesi, Appesi un valid’arco, e ingiunsi a lui, Che innanzi per la via stessa mi gisse. Ma Euriloco, i ginocchi ad ambe mani Stringendomi, e piangendo, Ah! mal mio grado, Con supplici gridò parole alate, Là non guidarmi, o del gran Giove alunno, Donde, non che altri ricondur, tu stesso Ritornar non potrai. Fuggiam, fuggiamo Senza indugio con questi, e la vicina Parca schiviam, finchè schivarla è dato. Euriloco, io risposi, e tu rimanti, Di carne, e vino a riempirti il ventre, Lungo la nave. Io, cui severa stringe Necessitate, andrò. Ciò detto, a tergo La nave negra io mi lasciava, e il mare. Già per le sacre solitarie valli Della Maga possente all’alta casa Presso io mi fea, quando Mercurio, il Nume, Che arma dell’aureo caducéo la destra, In forma di garzone, a cui fiorisce Di lanuggine molle il mento appena, Mi venne incontro, e per la man mi prese, E, Misero! diss’ei con voce amica, Perchè ignaro de’ lochi, e tutto solo, Muovi così per queste balze a caso? Sono in poter di Circe i tuoi compagni, E li chiudon, quai verri, anguste stalle. Venistu forse a riscattarli? Uscito Dell’immagine tua penso, che a terra Tu ancor cadrai. Se non che trarti io voglio Fuor d’ogni storpio, e in salvo porti. Prendi Questo mirabil farmaco, che il tristo Giorno dal capo tuo storni, e con esso Trova il tetto di Circe, i cui perversi Consigli tutti io t’aprirò. Bevanda Mista, e di succo esizïale infusa, Colei t’appresterà: ma le sue tazze Contra il farmaco mio nulla varranno. Più oltre intendi. Come te la Diva Percosso avrà d’una sua lunga verga, Tu cava il brando, che ti pende al fianco, E, di ferirla in atto, a lei t’avventa. Circe, compresa da timor, sue nozze T’offrirà pronta: non voler tu il letto Della dea ricusare, acciò ti sciolga Gli amici, e amica ti si renda. Solo Di giurarti costringila col grande Degl’immortali Dei giuro, che nulla Più non sarà per macchinarti a danno: Onde, poichè t’avrà l’armi spogliate, Del cor la forza non ti spogli ancora. Finito il ragionar, l’erba salubre Porsemi già dal suol per lui divelta, E la natura divisonne: bruna N’è la radice; il fior bianco di latte; Moli i Numi la chiamano: resiste Alla mano mortal, che vuol dal suolo Staccarla; ai Dei, che tutto ponno, cede. Detto, dalla boscosa isola il nume Alle pendici dell’Olimpo ascese; Ed io ver Circe andai: ma di pensieri In gran tempesta m’ondeggiava il core. Giunto alla Diva dalle belle trecce, La voce alzai dall’atrio. Udimmi, e ratta Levossi, e aprì le luminose porte, E m’invitava: io la seguia non lieto. Sovra un distinto d’argentini chiovi Seggio a grand’arte fatto, e vago assai, Mi pose: lo sgabello i piè reggea. Quindi con alma, che pensava mali, La mista preparommi in aureo nappo Bevanda incantatrice, ed io la presi Dalla sua mano, e bebbi; e non mi nocque. Però in quel che la Dea me della lunga Verga percosse, e, Vanne, disse, e a terra Co’ tuoi compagni nella stalla giaci, Tirai dal fianco il brando, e contra lei, Di trafiggerla in atto, io mi scagliai. Circe, mandando una gran voce, corse Rapida sotto il colpo, e le ginocchia Con le braccia afferrommi, e queste alate Parole mi drizzò, non senza pianto: Chi sei tu? donde sei? la patria dove? Dove i parenti a te? Stupor m’ingombra, Che l’incanto bevuto in te non possa, Quando io non vidi, cui passasse indarno Per la chiostra de’ denti il mio veleno. Certo un’anima invitta in petto chiudi. Sarestu forse quel sagace Ulisse, Che Mercurio a me sempre iva dicendo Dover d’Ilio venir su negra nave? Per fermo sei. Nella vagina il brando Riponi, e sali il letto mio: dal core D’entrambi ogni sospetto amor bandisca. Circe, risposi, che da me richiedi? Io cortese ver te, che in sozze belve Mi trasformasti gli uomini? Rivolgi Tacite frodi entro te stessa; ed io La tua penetrerò stanza secreta, Onde, poichè m’avrai l’armi spogliate, Del cor la forza tu mi spogli ancora? No, se non giuri prima, e con quel grande Degl’immortali Dei giuro, che nulla Più non sarai per macchinarmi a danno. Dissi; e la Dea giurò. Di Circe allora Le belle io salsi maritali piume. Quattro serviano a lei nel suo palagio Di quelle Ninfe, che dai boschi nate Sono, o dai fonti liquidi, o dai sacri, Che devolvonsi al mar, rapidi fiumi. L’una gittava su i politi seggi Bei tappeti di porpora, cui sotto Bei tappeti mettea di bianco lino: L’altra mense d’argento innanzi ai seggi Spiegava, e d’oro v’imponea canestri: Mescea la terza nell’argentee brocche Soavissimi vini, e d’auree tazze Copria le mense: ma la quarta il fresco Fonte recava, e raccendea gran fuoco Sotto il vasto treppiè, che l’onda cape. Già fervea questa nel cavato bronzo, E me la Ninfa guidò al bagno, e l’onda Pel capo mollemente, e per le spalle Spargermi non cessò, ch’io mi sentii Di vigor nuovo rifiorir le membra. Lavato, ed unto di licor d’oliva, E di tunica, e clamide coverto, Sovra un distinto d’argentini chiovi Seggio a grand’arte fatto, e vago assai, Mi pose: lo sgabello i piè reggea. E un’altra Ninfa da bel vaso d’oro Purissim’acqua nel bacil d’argento Mi versava, e stendeami un liscio desco, Che di candido pane, e di serbate Dapi a fornir la dispensiera venne. Cíbati, mi dicea la veneranda Dispensiera, ed instava; ed io, d’ogni esca Schivo, in altri pensieri, e tutti foschi, Tenea la mente, pur sedendo, infissa. Circe, ratto che avvidesi, ch’io mesto Non mi curava della mensa punto, Con queste m’appressò voci sul labbro: Perchè così, qual chi non ha favella, Siedi, Ulisse, struggendoti, e vivanda Non tocchi, nè bevanda? In te sospetto S’annida forse di novello inganno? Dopo il mio giuramento a torto temi. Ed io: Circe, qual mai retto uomo e saggio Vivanda toccheria prima, o bevanda, Che i suoi vedesse riscattati, e salvi? Fa, che liberi io scorga i miei compagni, Se vuoi, che della mensa io mi sovvegna. Circe uscì tosto con in man la verga, E della stalla gl’infelici trasse, Che di porci novenni avean l’aspetto. Tutti le stavan di rincontro; e Circe, D’uno all’altro passando, un prezïoso Sovra lor distendea benigno unguento. Gli odiati peli, che la tazza infesta Produsse, a terra dalle membra loro Cadevano; e ciascun più, che non era, Grande apparve di corpo, e assai più fresco D’etade in faccia, e di beltà più adorno. Mi ravvisò ciascuno, ed afferrommi La destra; e un così tenero, e sì forte Compianto si levò, che la magione Ne risonava orrendamente, e punta Sentiasi di pietà la stessa Maga. Ella, standomi al fianco, O sovrumano Di Laerte figliuol, provvido Ulisse, Corri, diceami, alla tua nave, e in secco La tira, e cela nelle cave grotte Le ricchezze, e gli arnesi: indi a me torna, E i diletti compagni adduci teco. M’entrò il suo dir nell’alma. Al lido io corsi, E i compagni trovai, che appo la nave Di lagrime nutriansi, e di sospiri. Come, se riedon le satolle vacche Dai verdi prati al rusticale albergo, I vitelli saltellano, e alle madri, Che più serraglio non ritienli, o chiostra, Con frequente muggir corrono intorno: Così con pianto a me, vistomi appena, Intorno s’aggiravano i compagni, E quei mostravan su la faccia segni, Che vi si scorgerian, se il dolce nido, Dove nacquero, e crebbero, se l’aspra Itaca avesser tocca. O, lagrimando Dicean, di Giove alunno, una tal gioja Sarebbe a stento in noi, se ci accogliesse D’Itaca il porto. Ma, su via, l’acerbo Fato degli altri raccontar ti piaccia. Ed io con dolce favellar: La nave Si tiri in secco, e nelle cave grotte Le ricchezze si celino, e gli arnesi. Poi seguitemi in fretta; ed i compagni Nel tetto sacro dell’illustre Circe Vedrete assisi ad una mensa, in cui Di là d’ogni desio la copia regna. Pronti obbediro. Ripugnava Euriloco Solo, ed or questo m’arrestava, or quello, Gridando, Sventurati, ove ne andiamo? Qual mai vi punge del disastro sete, Che discendiate alla Maliarda, e vôlti Siate in leoni, in lupi, o in sozzi verri, Il suo palagio a custodir dannati? L’ospizio avrete del Ciclope, quando Calaro i nostri nella grotta, e questo Prode Ulisse guidavali, di cui Morte ai miseri fu lo stolto ardire. Così Euriloco; ed io la lunga spada Cavar pensai della vagina, e il capo Dal busto ai piè sbalzargli in su la polve, Benchè vincol di sangue a me l’unisse. Ma tutti quinci riteneanmi, e quindi Con favella gentil: Di Giove alunno, Costui sul lido, se ti piace, in guardia Della nave rimangasi, e alla sacra Magion noi guida. Detto ciò, dal mare Meco venian, nè restò quegli indietro: Tanto della minaccia ebbe spavento. Cura prendeasi Circe in questo mezzo Degli altri, che lavati, unti, e di buone Tuniche cinti, e di bei manti furo. Seduti a mensa li trovammo. Come Si sguardaro l’un l’altro, e sul passato Con la mente tornaro, in pianti, e in grida Davano; e ne gemean pareti, e volte. M’appressò allora, e mi parlò in tal guisa L’inclita tra le Dive: O di Laerte Gran prole, o ricco di consigli Ulisse, Modo al dirotto lagrimar si ponga. Noto è a me pur, quanti nel mar pescoso Duraste affanni, e so le crude offese, Che vi recaro in terra uomini ostili. Su via, gioite omai, finchè nel petto Vi rinasca l’ardir, ch’era in voi, quando Itaca alpestre abbandonaste in prima. Bassi or gli spirti avete, e freddo il sangue, Per la memoria de’ viaggi amari Nelle menti ancor viva, e l’allegrezza Disimparaste tra cotanti guai. Agevolmente ci arrendemmo. Quindi Pel continuo rotar d’un anno intero Giorno non ispuntò, che a lauta mensa Me non vedesse, e i miei compagni in festa. Ma rivolto già l’anno, e le stagioni Tornate in sè col varïar de’ mesi, Ed il cerchio dei dì molti compiuto, I compagni, traendomi in disparte, Infelice! mi dissero, del caro Cielo nativo, e delle avite mura Non ti rammenterai, se vuole il fato, Che in vita tu rimanga, e le rivegga? Sano avviso mi parve. Il Sol caduto, E coverta di tenebre la terra, Quei si corcaro per le stanze; ed io, Salito il letto a maraviglia bello Di Circe, supplichevoli drizzai Alla Dea, che m’udì, queste parole: Attiemmi, o Circe, le impromesse, e al caro Rendimi natio ciel, cui sempre vola, Non pure il mio, ma de’ compagni il core, De’ compagni, che stanno a me d’intorno, Sempre che tu da me t’apparti, e tutta Con le lagrime lor mi struggon l’alma. O di Laerte sovrumana prole, La Dea rispose, ritenervi a forza Io più oltre non vo’. Ma un’altra via Correre in prima è d’uopo: è d’uopo i foschi Di Pluto, e di Proserpina soggiorni Vedere in prima, e interrogar lo spirto Del Teban vate, che, degli occhi cieco, Puro conserva della mente il lume; Di Tiresia, cui sol diè Proserpina Tutto portar tra i morti il senno antico. Gli altri non son, che vani spettri, ed Ombre. Rompere il core io mi sentii. Piagnea, Su le piume giacendomi, nè i raggi Volea del Sol più rimirare. Al fine, Poichè del pianger mio, del mio voltarmi Su le piume io fui sazio, Or qual, ripresi, Di tal viaggio sarà il Duce? All’Orco Nessun giunse finor su negra nave. Per difetto di guida, ella rispose, Non t’annojar. L’albero alzato, e aperte Le tue candide vele, in su la poppa T’assidi, e spingerà Borea la nave. Come varcato l’Oceáno avrai, Ti appariranno i bassi lidi, e il folto Di pioppi eccelsi, e d’infecondi salci Bosco di Proserpína: a quella piaggia, Che l’Oceán gorghiprofondo batte, Ferma il naviglio, e i regni entra di Pluto. Rupe ivi s’alza, presso cui due fiumi S’urtan tra lor romoreggiando, e uniti Nell’Acheronte cadono: Cocito, Ramo di Stige, e Piriflegetonte. Appréssati alla rupe, ed una fossa, Che un cubito si stenda in lungo, e in largo, Scava, o prode, tu stesso; e mel con vino, Indi vin puro, e limpidissim’onda, Vérsavi, a onor de’ trapassati, intorno, E di bianche farine il tutto aspergi. Poi degli estinti prega i frali, e vôti Capi, e prometti lor, che nel tuo tetto, Entrato con la nave in porto appena, Vacca infeconda, dell’armento fiore, Lor sagrificherai, di doni il rogo Riempiendo; e che al sol Tiresia, e a parte, Immolerai nerissimo arïete, Che della greggia tua pasca il più bello. Compiute ai Mani le preghiere, uccidi Pecora bruna, ed un monton, che all’Orco Volgan la fronte: ma converso tieni Del fiume alla corrente in quella il viso. Molte Ombre accorreranno. A’ tuoi compagni Le già sgozzate vittime, e scojate Mettere allor sovra la fiamma, e ai Numi, Al prepotente Pluto, e alla tremenda Proserpina drizzar voti comanda. E tu col brando sguainato siedi, Nè consentir, che anzi, che parli al vate, I Mani al sangue accostinsi. Repente Il profeta verrà, Duce di genti, Che sul vïaggio tuo, sul tuo ritorno Pel mar pescoso alle natie contrade Ti darà, quanto basta, indizio e lume. Così la Diva; e d’in su l’aureo trono L’Aurora comparì. Tunica e manto Circe stessa vestimmi; a sè ravvolse Bella, candida, fina, ed ampia gonna, Si strinse al fianco un’aurea fascia, e un vago Su i ben torti capei velo s’impose. Ma io, passando d’una in altra stanza, Confortava i compagni, e ad uno ad uno Con molli detti gli abbordava: Tempo Non è più da sfiorare i dolci sonni. Partiamo, e tosto. Il mi consiglia Circe. Si levaro, e obbediro. Ahi che nè quinci Mi si concesse ricondurli tutti! Un Elpenore v’era, il qual d’etate Dopo gli altri venia, poco nell’armi Forte, nè troppo della mente accorto. Caldo del buon licore, onde irrigossi, Si divise dagli altri, ed al palagio Mi si corcò, per rinfrescarsi, in cima. Udito il suon della partenza, e il moto, Riscossesi ad un tratto, e, per la lunga Scala di dietro scendere obbliando, Mosse di punta sovra il tetto, e cadde Precipite dall’alto: il collo ai nodi Gli s’infranse, e volò l’anima a Dite. Ragunatisi i miei, Forse, io lor dissi, Alle patrie contrade andar credete. Ma un altro pria la venerabil Diva Ci destinò cammin, che ai foschi regni Di Pluto, e di Proserpina conduce, Per quivi interrogar del rinomato Teban Tiresia l’indovino spirto. Duol mortale gli assalse a questi detti. Piangeano, e fermi rimanean lì lì, E la chioma stracciavansi: ma indarno Lo strazio della chioma era, ed il pianto. Mentre al mar tristi tendevamo, e spesse Lagrime spargevam, Circe, che in via Pur s’era posta, alla veloce nave Legò la bruna pecora, e il montone. Ci oltrepassò, che non ce ne avvedemmo, Con piè leggiero. Chi potria de’Numi Scorgere alcun, che qua, o là si mova, Quando dall’occhio uman voglion celarsi? ~~~~ Scrivi Cancella commentoLa tua email non sarà pubblicataCommentaNome* Email* Sito Salva il mio nome, email e sito web in questo browser per la prossima volta che commento. Hai disabilitato Javascript. Per poter postare commenti, assicurati di avere Javascript abilitato e i cookies abilitati, poi ricarica la pagina. 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